31.5.06

Tassa di circolazione



Tra le tante cose straordinarie che si trovano sulla rete, questa settimana vi vorrei segnalare un altro blog che mi ha veramente colpito.

E'una donna americana che vive in un'automobile.

Dice di se stessa: Feb, 2006. Per gli scorsi 5 mesi ho vissuto da sola in un'auto al margine di un bosco - disoccupata, senza casa, e totalmente incapace di trovare una via di uscita. Non so cantare, non so ballare, non so gridare forte abbastanza. Tutto cio' che so fare e' scrivere. Quindi eccomi qui, a mettere le fondamenta e forse a trovare una strada online.

Leggetevelo dall'inizio, cominciando dagli archivi, se vi interessa. Vi assicuro che e'una lettura istruttiva ed affascinante...

23.5.06

Padri e figli



Di seguito un articolo di Gad Lerner, divertente nella sua drammaticita'. E comunque, per vostra informazione, di tutta questa storia almeno qui non si e' stupito nessuno...


Chiara figlia di Cesare. Alessandro figlio di Luciano. Davide figlio di Marcello. Ma prima ancora Francesca figlia di Calisto. Andrea figlio di Sergio. Riccardo figlio di Gianmarco. Giuseppe figlio di Ciriaco... Noto una certa reticenza in giro a denunciare come riprovevole, sebbene legale, l'esibizione di potere dei figli prestanome riuniti nella società d'intermediazione sportiva Gea World. Geronzi, Moggi, Lippi, Tanzi, Cragnotti, Calleri, De Mita. Magari pure con una spruzzatina di Carraro (e a fare buon peso la seconda figlia di Geronzi, Benedetta, che lavorava in Figc presso Carraro padre, cui bontà sua il gruppo Capitalia aveva destinato la presidenza della propria banca d'affari).

Prestanome? Come mi permetto? E come faccio a dimostrarlo? Ufficialmente sono tutti giovani intraprendenti che si guardavano bene dal coinvolgere il papà nei loro affari. È solo una coincidenza che gli illustri genitori in questione a loro volta gestissero business incrociati fra Capitalia, Cirio, Parmalat, Roma, Lazio, per fermarci all'ufficialità.

Lungi dal patirne un danno alla reputazione, da anni padri e figli ostentavano la propria contiguità. Esibirla, infatti, procurava loro vantaggi evidenti, sotto forma di timore riverenziale diffuso nell'ambiente.
Sembra quasi che nessuno in Italia possa permettersi di contestare a un padre il sacrosanto diritto di sistemare il figlio. Anzi. Quando Luciano Moggi ormai bersaglio dei mass media implora: "Prendetevela pure con me, ma Alessandro non c'entra nulla, lasciatelo in pace", siamo portati ad apprezzare il suo nobile intento quasi che l'Alessandro in questione fosse un povero minorenne incapace di intendere e di volere. Non un uomo adulto dotato di autonome responsabilità.

E ancora. Nel 2003, quando le indagini sui crac di Cirio e Parmalat coinvolsero il presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, nessuno fra gli illustri membri del patto di sindacato di quella banca avanzò rilievi di opportunità per l'insolita compagnia d'affari in cui sedevano riuniti i figli dei protagonisti degli scandali. L'osservazione sarebbe parsa incongrua, esulando dalla materia delle indagini. Gli intrecci familistici da noi sono ridimensionati a mere questioni di gusto, debolezze genitoriali meritevoli d'indulgenza.
Eppure mi chiedo quale forma di amore paterno sia questa che trasforma i figli in longa manus della propria influenza nell'establishment. E viceversa, perché a tanti giovani già comunque benestanti riesca così facile accettare l'idea, sgradevole per una donna o un uomo d'onore, di accreditarsi solo grazie ai privilegi del cognome che conta.

Posso immaginare le obiezioni. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Le redazioni dei giornali (e più ancora dei telegiornali) non sono forse costellate di firme che si tramandano di padre in figlio? La prole degli avvocati, dei notai, dei medici non eredita forse massicciamente studi professionali bene avviati da generazioni? E la consuetudine di assumere i figli dei dipendenti non è stata contrattata dagli stessi sindacati di categoria, alle poste come alle ferrovie?
Niente di nuovo sotto il sole, già i sociologi e gli storici di matrice anglo-sassone hanno dovuto coniare la formula del familismo amorale per raccontare il Bel Paese.

Ma se permettete la vicenda Gea straripa dalle consuetudini genitoriali della nazione. Perché un conto è cedere il proprio posto al figlio, magari come incentivo a un pensionamento anticipato, altra cosa è posizionare la prole strategicamente nei gangli delle relazioni che contano, dentro quella che Alessandro Penati chiama "l'economia-spettacolo": un reticolato collusivo che protegge il suo potere utilizzando l'effetto mediatico della celebrità. Gli amici degli amici, i figli dei padrini, più o meno come nella mafia.

Gli effetti di tali comportamenti sulla chiusura e sul declino dell'establishment, sono evidenti. Ricordate il più sincero e illiberale degli allarmi berlusconiani? "La sinistra vuole che i figli dei professionisti siano uguali ai figli degli operai". Qui lo ritroviamo applicato al suo massimo grado: i figli dei soliti noti si mettano d'accordo fra loro al fine di perpetuare la casta d'appartenenza. Libero mercato? Concorrenza? Propensione al rischio? Uguaglianza di opportunità? Selezione dei migliori? Chiacchiere buone solo per anglofili da strapazzo. Siamo o non siamo il Paese che va nel panico di fronte all'idea di una tassa di successione sulle grandi eredità? Siamo o non siamo, fra le maggiori economie del pianeta, quella a minore tasso di mobilità sociale, rasentando l'immobilismo? Vale la pena di ricordare che l'Italia dei figli di papà della Gea World è anche la nazione in cui il 71 per cento dei figli degli operai sono destinati a fare gli operai. Mentre un'ascesa sociale significativa riguarderà solo un misero 6 per cento fra questi milioni di giovani.

Se tutto ciò spiega la reticenza con cui affrontiamo i casi più plateali di familismo amorale - siamo abituati a considerare lecito quel che all'estero viene come minimo guardato con sospetto - è soprattutto l'aspetto educativo e culturale del fenomeno a lasciare interdetti.

Cosa insegna ai suoi figli, chi ce l'ha fatta? Il modello resta sul serio quello pseudo-aristocratico del ballo delle debuttanti dove ci s'incontra in cerca del "partito giusto", solo col denaro al posto del lignaggio, e magari con l'aereo privato per trasportare Ilaria D'Amico a cena a Parigi?

La narrazione sociologica di Giuseppe De Rita sul passaggio generazionale nelle aziende familiari era intessuta di ben altre controversie. Il padre che si era fatto da sé mandava a studiare il figlio, ma eccolo poi disperato di fronte al rampollo che magari si presentava in fabbrica con la Ferrari, pronto a scappare via il venerdì pomeriggio per il week end. Ora invece sembra che i padri predichino la collusione al posto dell'eccellenza. Architettano salottini buoni, anticamere del potere dove fare esperienza e accumulare denaro in attesa della cooptazione nei patti di sindacato per adulti.

Poveri figli educati all'intrallazzo. Alcuni li abbiamo visti posare sorridenti a Roma come a Milano su appositi rotocalchi, magari con la scusa di iniziative benefiche - Geronimo, Barbara, Lapo, Jonella, Gilda - incaricando le didascalie pop di valorizzare l'eredità casuale dei cognomi importanti. Quanti di loro avranno la forza di respingere l'afflato soverchiante di un amore paterno che li incoraggia agli affari facili?

Di fronte all'esplosione dello scandalo Gea anch'io, come genitore, mi scopro portato a considerare vittime i figli di papà famosi. Ma non certo vittime della magistratura o dei mass media. Già sapevamo di quanti danni possano prodursi all'interno di un nucleo familiare, e non solo nelle fasce deboli della società. Chissà che un giorno il nuovo ministero assegnato a Rosy Bindi non debba tutelare pure queste giovani vite stritolate dal privilegio. O forse, vista la fascia di reddito, potremo accontentarci di un buon psicanalista?

Da repubblica.it

18.5.06

L'eterno studente



In Italia sarebbe un signor nessuno, uno dei tanti studenti che ormai hanno perso il conto degli anni trascorsi dal giorno della loro immatricolazione.

Ma negli Stati Uniti Johnny Lechner, che si prepara ad affrontare il suo tredicesimo anno di università, è praticamente una star. Ha partecipato a trasmissioni televisive note come il Late show with Dave Letterman e Good Morning America, e il New York Times gli ha addirittura dedicato un ritratto in prima pagina.

Ha persino la sua biografia su Wikipedia

L'ultimo episodio della storia dell'"eterno studente", com'è stato ribattezzato già parecchio tempo fa, è al centro di un articolo del Wisconsin State Journal: "Pochi giorni prima di ricevere il suo diploma all'università di Whitewater, nel Wisconsin, Lechner si è reso conto che in dodici anni non aveva mai fatto un periodo di studio all'estero. A quel punto ha chiamato la segreteria e ha annunciato che non si sarebbe laureato quest'anno".

La decisione ha provocato molti commenti ma poco stupore: "Per quasi tutti i suoi compagni di università, Lechner è solo uno che cerca di rimanere al centro dell'attenzione. E c'era già chi si rallegrava del suo imminente addio. Pochi giorni fa il giornale dell'università aveva pubblicato un editoriale che si concludeva con l'esclamazione: 'Finalmente ce ne siamo liberati!'".

Altri, però, confessano che gli spiacerebbe non vedere più l'eterno studente in giro: "Johnny un po' come la vecchia poltrona della veranda – ha spiegato uno di loro. "È qui da sempre, e non riesci a immaginare questo posto senza di lui".

E scusate, anche se non c'entra niente, qualcuno mi sa dire se questo Marco Mantello, il cui libro di poesie 'Standards' e' pure libro del mese su Internazionale, e' QUEL Marco Mantello?

9.5.06

Egoarca Mussolardi



Mi capita sempre piu' spesso di mettermi a ridere da solo. Sicuramente questo e'dovuto all'eta'avnzata ed avanzante.

Oggi per esempio stavo leggendo una cosa stupida, quando mi sono imbattuto nella seguente frase: 'Nel cd singolo, oltre a "Non fermateci", anche l'inedito "Dilla Tutta", sigla radio del programma condotto dal Trio Medusa'.

Adesso, quelli tra i lettori che vivono in Italia probabilmente sapranno a cosa questa frase si riferisce. Ma vi assicuro che per quanto mi riguarda potrebbe essere stata presa pari pari da un romanzo di Stefano Benni. E mi ha fatto ridere.

Una cosa che mi ha fatto meno ridere invece e'quanto e'successo nel calcio - anche se devo dire ci trovo altrettante risonanze 'benniane'. E questo non perche'sia un tifoso - e chi mi conosce sa che me ne importa poco - ma perche'mi ricorda di 'come e'misera la vita negli abusi di potere', come diceva qualcuno. E questo articolo di Michele Serra da Repubblica.it, che riporto di seguito e se non avete letto vi consiglio vivamente di farlo, mi pare metta la vicenda nel contesto piu' appropriato. Aloha.



'La cosa veramente triste, leggendo le intercettazioni telefoniche di Luciano Moggi con alcuni dei suoi amiconi preferiti, è che sono esattamente come le avremmo immaginate. Nel lessico, nelle intenzioni, nello spirito: ricalcate sulle nostre supposizioni ordinarie. Né migliori, né peggiori.

Sono, senza scampo, senza sorprese, la sceneggiatura già mille volte scritta, mille volte recitata, di un potere italiano trafficone e ruffiano che essendo del tutto all'oscuro del binomio diritti/doveri vive, si muove e si assesta attorno al binomio favori/sgarbi. Un mondo di comparaggi e padrinati (dunque, e lo si sottolinea sempre troppo poco, un mondo esclusivamente maschile, e familista, e sostanzialmente arcaico) sempre in bilico tra illegalità da accertare e un molto accertato squallore.

Come spesso accade nel nostro difficile Paese, diventa complicato perfino parlare di moralità in presenza di mentalità e persone che, esplicitamente, considerano perfettamente legittimo, e forse perfino lodevole, avvolgere i propri interessi di bottega in un fitto bozzolo di protezioni, raccomandazioni, strizzate d'occhio. Come spiegare a un direttore sportivo già chiacchieratissimo che non è proprio il caso di parlare con il designatore degli arbitri (cioè con la più delicata delle istituzioni calcistiche) come se fosse suo compare d'affari? E come spiegare al designatore degli arbitri che spetterebbe proprio a quelli come lui rimettere quelli come Moggi al loro posto, quando è evidente che tra i due la spalla, il sottoposto, è proprio il signor designatore?

In conversazioni di questo genere - come già in quelle, giustamente proverbiali, dei furbetti del quartierino - non echeggiano mai quelle frasi che certificherebbero il buono stato di salute etica, o forse solo di salute mentale, di una comunità: mai uno "stia al suo posto e non si permetta", mai un "ma si rende conto che esistono delle regole?". Nessuno che infranga, anche solo verbalmente, quell'insopportabile patina di complicità, di "diamoci una mano", che fa da tinta madre a tutti i più unti canovacci nazionali.

Ovunque un "tu" piacione e colloso, un clima da eterna rimpatriata (e si immaginano i ristoranti, i bavaglioli, le risate grasse) e una furbizia greve, da commedia dell'arte: quella stessa che poi vediamo, ripulita dei suoi quadri più inconfessabili, nei peggiori talk-show calcistici, dove "l'amico Moggi" da anni ammannisce a una platea spesso estasiata oscure facezie e sorridenti minacce, una specie di andreottisimo però imbertoldito, un'imitazione popolaresca del Potere che è parodia però senza saperlo. In fondo soprattutto penosa, e penosa non tanto perché rimanda a probabili prepotenze calcistiche, quando perché incarna (altro che calcio...) la vecchia furbizia contadina italiana appena appena camuffata, incravattata di fresco, e riscodellata in video per la gran gioia di chi non vuole fare la fatica di pensarci diversi, noi italiani, da questo stucchevole arrangiarci da subalterni: da servi, altro che da potenti. (Che la furbizia sia caratteristica servile, e mai signorile, è la sola fondamentale scoperta politica che milioni di italiani devono ancora fare).

E il tutto, poi, si badi bene, ben radicato e fiorito lungo
il corso degli anni alla corte della sola accertata monarchia borghese d'Italia, la Juventus dello "stile Juventus", gli Agnelli dello "stile Agnelli". Le cui giovani leve, esauriti i dovuti vizi di crescita, si spera possano dare una sterzata all'andazzo, vincendo mezzo scudetto di meno, magari, ma guadagnando un minimo di "immagine", parola così di moda che sempre più spesso ci si dimentica che forse significa qualcosa.

Tanto, Moggi un altro lavoro lo troverebbe di sicuro: il calcio italiano, e il Paese in genere, non pare abbiamo i normali anticorpi bastanti a difendersi dai prepotenti e dai furbi. Difatti, suscitando altri tremiti in altri ambienti attenti allo stile, ogni tanto corre la voce che l'indubitabile signore Moratti voglia portarlo all'Inter, questo fenomeno della telefonata giusta.
Speriamo di no. Ma non stupiamoci se è sì.'

3.5.06

mOsica!




Da quando la mia Signora ha cambiato lavoro un paio di settimane fa (adesso fa la 'spalla' ad uno dei fiorelli locali, qui se vi interessa potete anche (ri)sentire i programmi scorsi) sento molta piu'radio di prima.

E in trasmissione l'altroieri hanno chiesto agli ascoltatori di telefonare per parlare del primo disco che loro avessero comprato, per poi suonarlo.

Domanda che vi rigiro, certo di cacciarmi in uno dei soliti silenzi imbarazzanti che seguono le mie esortazioni all'interazione su questo blog: qual'e' il primo disco che avete comprato? quanti anni avevate? dove eravate? e perche' avete comprato proprio quello?

A voi (?)

ps. lo so che vedendo la copertina qui sopra vi e'venuta voglia di risentirvi 'L'ottavo re di Roma'... gia' vi sento che la canticchiate... tie', ve l'ho trovata (attenzione, file di circa 4Mb non consigliato per connessioni lente...)